I REFERENDUM SU ART.18 E ART.8: alcune considerazioni utili
I referendum su articolo 18 e articolo 8: alcune considerazioni utili
Articolo 8. Questa legge è stata voluta dall’ ex ministro del lavoro Maurizio Sacconi e prevede che la contrattazione collettiva di prossimità possa derogare anche in pejus – in peggio – alla legge e al contratto collettivo di livello superiore. Ciò significa che dal 2011 è possibile che un contratto aziendale – di secondo livello – possa prevedere deroghe peggiorative non solo rispetto al contratto collettivo di riferimento bensì anche alle leggi.
Per chi non mastica di questioni contrattuali e sindacali facciamo questo semplice esempio: domani l’azienda per cui lavorate convoca un sindacato – magari particolarmente compiacente: Fiat docet – e sottopone al sindacalista l’esigenza di rivedere e stravolgere, peggiorandole drasticamente, gran parte delle norme contrattuali che regolano la vita dei lavoratori in azienda: inquadramento professionale, orario di lavoro, modalità di assunzione, scatti di anzianità, mensa, ecc.; il sindacalista compiacente firma, se ne va, torna a casa sua bello sereno, e le lavoratrici e i lavoratori di quell’azienda, dal giorno dopo, hanno un nuovo contratto…peggiore. Il tutto condito dal fatto che a nessuna di quelle persone è concesso di esprimere il proprio parere con il voto. Ciò Significa una cosa soltanto: che i contratti collettivi nazionali di lavoro potenzialmente non valgono più nulla. E se un contratto non è più nazionale e non è più collettivo, non occorre essere Aristotele per arrivare alla necessaria conclusione logica che indica nella contrattazione individuale o al massimo aziendale la strada da percorrere.
La contrattazione aziendale, infatti, è oggi presente in poco più del 20 percento delle realtà produttive. Se non ci fosse il contratto nazionale quasi l’80% dei lavoratori non sarebbe in grado di fare una contrattazione dignitosa e sarebbe in balia delle richieste – anche le più assurde – del datore di lavoro. A causa dell’altissimo tasso di disoccupazione si innescherebbe poi una gara al ribasso in termini di diritti e salari.
Molti giuristi affermano che tale legge sia incostituzionale perché introdurrebbe una polverizzazione del diritto del lavoro; originerebbe cioè delle disarmonie in tutta la disciplina, tali da entrare in conflitto con il principio di razionalità e ragionevolezza a cui tutte le leggi si debbono attenere. Sarebbe un po’, mi si scusi la rozzezza dell’esempio, come introdurre dei limiti di velocità in autostrada e poi dire che non importa rispettarli.
Con la scusa di andare oltre le rigidità del contratto nazionale si concede al padronato una bella fetta di potere in più. In sintesi: si introduce uno strumento legislativo che abbassa ulteriormente salari e diritti poiché, così facendo – non essendoci più la scorciatoia storica che consisteva nello svalutare la lira – si ritiene di aumentare il tasso di competitività delle nostre imprese.
Articolo 18. Il governo Monti e la Ministra Fornero hanno modificato sostanzialmente quella norma di legge che imponeva, in tutte le aziende con più di 15 dipendenti, il reintegro di un lavoratore ingiustamente licenziato. Vediamo come.
1. Ora il reintegro obbligato scatterà solo in caso di licenziamento discriminatorio (per motivi politici, religiosi, di opinione, ecc.). Ma quale imprenditore sarà mai così sprovveduto da dichiarare che licenzia qualcuno perché ebreo o perché sindacalista?
2. Si potranno quindi fare licenziamenti individuali adducendo dei motivi economici anche nelle aziende con più di 15 dipendenti. In tal caso, se il lavoratore riterrà di essere stato licenziato ingiustamente potrà adire le vie legali. Fino a oggi, nelle aziende con più di 15 dipendenti, si poteva licenziare individualmente, o per motivi disciplinari, o per giustificato motivo oggettivo: es. il proprio ufficio veniva soppresso; ma non si poteva ricorrere a licenziamenti individuali per motivi economici, per sopperire cioè a problemi di fatturato o di bilancio: era necessario, in tal caso, attivare degli ammortizzatori sociali, nello specifico le classiche procedure di mobilità.
Ancora un esempio: se il lavoratore licenziato vuole adire le vie legali deve sapere che il percorso si presenterà irto di difficoltà. In primo luogo non è affatto detto che il giudice, pur riconoscendo l’ingiustizia dell’atto, imponga un reintegro, bensì potrebbe accontentarsi di disporre un semplice indennizzo economico: dalle 10 alle 25 mensilità; in secondo luogo, in caso di sconfitta, il lavoratore si vedrà costretto a pagare qualche migliaio di euro di spese processuali, mentre prima della riforma la sua quota parte era minima: si riconosceva cioè la sproporzione di mezzi tra azienda e lavoratore. Mettetevi quindi nei panni di una persona che ha appena perso il lavoro e che si sente dire dall’avvocato: “Se vinci bene, ma se perdi dovrai pagare 5mila euro di spese processuali.” Ovviamente, si disincentiva il licenziato a percorrere questa strada.
3. Nel caso si andasse davanti a un giudice l’indennizzo economico sarà la sanzione più probabile, per cui le aziende potranno annualmente mettere a budget i soldi di tutte le eventuali cause di lavoro: dalle 10 alle 25 mensilità per ogni lavoratore, stando larghi. Ciò significa programmare scientificamente i licenziamenti.
Per la verità la norma è molto più complessa e le conseguenze potenzialmente devastanti: immaginate come vivranno i sindacalisti e coloro che si battono per delle condizioni di lavoro migliori: cottimi, sicurezza, ergonomia, salario; immaginate come sarà facile – specie ora, in tempo di crisi – mascherare dei licenziamenti discriminatori con motivazioni economiche false o esagerate: quale azienda oggi non ha seppur minimi problemi di bilancio? Ci preme evidenziare che sia il provvedimento sull’art.8, sia le modifiche all’ art.18 sono il frutto di una stessa ideologia che mira a ridurre diritti e tutele nella speranza che così il nostro sistema produttivo possa riconquistare la competitività perduta.
A tale disegno si debbono infatti ricondurre la riforma delle pensioni, che allunga l’età pensionabile fino ai settant’anni, e tutto il dibattito sul demansionamento. Sulle pensioni: tutti sanno che a settant’anni non si è più efficienti come un tempo, diventa perciò inevitabile che si introducano norme che permettano di licenziare uomini e donne con maggiore facilità (vedi art 18). Sul demansionamento: tutti sanno che a settant’anni si rende probabilmente meno che a trenta; e allora perché non introdurre norme che permettano la rimozione e il demansionamento delle persone?
Ecco che il cerchio si chiude. I referendum sull’articolo 8 e sull’articolo 18 promossi dalla Fiom vogliono cambiare questo stato di cose; vogliono ridare dignità al lavoro, vogliono ribadire con forza che il lavoro non è una merce; vogliono dare ai giovani, ai precari, ma anche a chi si trova più in là con gli anni, la speranza che in questo paese sia possibile cambiare decisamente rotta. Questi referendum parlano però anche alle imprese. Dicono loro che la competizione globale giocata riducendo salari e diritti è rischiosa perché slabbra il tessuto sociale, crea conflitto e tensioni e, in definitiva, non stimola le aziende stesse a investire in qualità, in ricerca e in innovazione tecnologica. Ridurre salari e tutele è solo una scorciatoia, un’illusione che, purtroppo, produrrà ulteriore ritardo tecnologico e produttivo; insomma oltre al danno, la beffa.